biennali

venezia 1980/82/84 / catalogo

ORCHESTRA SOLARE N. 3

La storia di questo nostro tentativo si intreccia nel tempo, si ricollega idealmente a chi tentò di fare della propria arte pura la purezza dì un’arte a più voci. Senza per questo perdere l’armonia sua propria. Siamo partiti dalla speranza del sole del mattino, lo abbiamo seguito fino al ciclico sfiorire della sera; al suo quotidiano inverno ed alla sua primavera abbiamo chiesto la rifondazione. La voglia di futuro. Per credere ancora, specie nell’arte, quale mediatrice fra Natura e Storia, micro e macrocosmo, realtà del limite e viaggi d’utopia. Solo così la voglia di futuro incontra, si fonda ed appaga il bisogno demistificante ed irrefrenabile del sacro.

La voce del dizionario artistico che più gronda fascino e sconfitta è senz’altro arte totale. Il cinema, sull’onda dei deliri wagneriani, fu accolto all’inizio del secolo come il depositario di questo sogno antichissimo. In esso il libretto, la scenografia e la colonna sonora parevano aver raggiunto il punto più alto di simbiosi, con un’origine comune ed una comunione celebrata ad ogni rappresentazione. Eppure qualcosa si inceppò, e gli stessi squilibri rinfacciati all’opera lirica (tra tutti, l’assoluta secondarietà del libretto) riemersero con la stessa irridente caotica prepotenza anche a proposito della sintesi filmica. Nonostante i tentativi di Eggeling e Richter, la musica della colonna sonora divenne sempre meno pietra d’angolo, e sempre più invece un misero ed un po’ casuale accompagnamento; il montaggio sonoro non accettò la sua parte di comprimario: fu tecnicismo (suono, e non musica) oppure prima donna, dominatrice a tutto campo d’un momento più o meno «emotivo». Con Orchestra solare abbiamo voluto fare un primo passo nella direzione di un’arte intrinsecamente fondata su diversi mezzi espressivi, in strettissima interrelazione fra loro. Ogni momento del giorno vedrà un colore, una forma ed una musica, in una lenta evoluzione nella quale essi manterranno una logica comune. Affronteranno le successive metamorfosi in equilibrio, nei loro ruoli complementari verso ìl tutto, l’arte.

Per prima cosa il simbolo, ovvero la forma, il disegno di luce. Dalla deformazione grottesca del primo mattino, si verrà poi precisando fino all’equilibrio del mezzogiorno, quando ai tre segmenti si aggiungerà anche la circonferenza che li racchiude. li momento sintetico è raggiunto dopo un lungo cammino dì purificazione ed avvicinamento, una salita al monte che viene coronata dalla perfezione del cerchio. Momento, appunto, perché subito inizierà la discesa: in ogni giorno e negli anni. Sebbene questo simbolo derivi dalla cultura americana nord-occidentale, abbastanza lontano quindi dalla tradizione a cui siamo soliti fare riferimento, la sua esemplarità nello spiegare l’eterno ritorno e la metamorfosi lo colloca in posizione centrale nella nostra riflessione. Le due parti di cui si compone sono bene distinte: il cerchio da sempre rappresenta la totalità, il macrocosmo, in tutte le sue manifestazioni che vanno dallo Yin-Yang al serpente che si morde la coda, al sole stesso ed alla ruota solare. Come l’aureola a mandorla che avvolge totalmente la figura del Cristo, anche in questo caso la funzione del cerchio è essenzialmente di delimitare, racchiudere il possibile. Solitamente la seconda componente è la croce: essa significa divisione, molteplicità, presso gli Egizi così come nei punti cardinali. Abbiamo preferito le tre linee ondulate perché richiamano il movimento dell’acqua (la madre Gange) e della vita, la frammentazione esistenziale delle tre metamorfosi; le quali sono sempre, come nel simbolo, inserite nella struttura unitaria e ciclica dell’eterno ritorno, il quarto elemento negato alla dialettica e presente nell’estasi del mezzogiorno. Quando abbiamo questi due simboli uniti, quindi, essere e divenire, uno e molteplice sono in equilibrio: la destrutturazione quotidiana è ricondotta alla misura immensa ma incatenata dell’uomo. Nella tradizione indiana, solo l’uno, il padre Himalaya, impedisce che l’acqua vitale del fiume divenga inondazione fatale.

La stessa metamorfosi avviene nei colori: con una ripetizione quotidiana della creazione, all’inizio è il nero, il limite estremo del nulla e della morte. Poi è la volta del rosso, il divenire rivoluzionario delle passioni In tumulto e del tempo, scandito dal cammino del sole nel cielo: fino al bianco supremo dove al conflitto subentra la quiete dell’incredibile comporsi, quando anche la musica raggiunge il suo apogeo. Ecco quindi che in ogni momento del giorno il rapporto tra le diverse componenti si va precisando, dal nero, negazione di luce ed infinito silenzio, fino al bianco, attraverso il crescendo destrutturante del rosso. Ogni istante propone una combinazione che sappiamo diversa ma tutte, giunte alla sommità della parabola ascendente, in nome del ritorno iniziano a raggrinzire verso il proprio tramonto, ed un nuovo mattino.

Se è vero che ogni momento è microcosmo a sé, tutti sono inseriti nel respiro più vasto del giorno, e fra tutti i giorni e le stagioni, dell’anno. Lo stato nascente dell’istante si ricompone quindi nel macrocosmo, dove gli opposti e le contraddizioni, ed i cammini quotidiani di liberazione, hanno più duratura quiete senza essere in precedenza in alcun modo esorcizzati. L’aver lasciato irrisolta la dicotomia fondamentale fra città e cosmi diversi permette all’uomo di lasciare aperte tutte le prospettive a sua disposizione, a seconda che guardi l’uno o i molti, l’eternità immutabile oppure il magma dirompente del quotidiano.

Crisi delle ideologie, dell’arte e della ragione hanno lasciato l’uomo solo di fronte al gelo della sua lucidità, in una lunga notte senza dei. Ovvio quindi che l’incarnazione simbolica della speranza, il nuovo inizio, dovesse essere il sole del mattino. Da qui siamo partiti; ed in un antico geroglifico di El Amarna, abbiamo trovato una prima risposta. In alto è raffigurato il sole, un disco perfetto simbolo del divino, che invia i suoi raggi in terra: lunghe linee alla cui estremità una piccola mano richiama l’idea stessa di dono, la vita che proviene dal la misteriosa sovrabbondanza dell’astro. In basso il faraone, le istituzioni, il popolo tutto e la natura, che di quel dono sono i beneficiari. In mezzo, perno e chiave interpretativa, un simbolo che racchiude in sé secoli e secoli di cultura, di tradizione sacerdotale: la croce della vita. In questo schema semplicissimo è racchiuso il segreto della civiltà di un popolo antico, della sua gioia. Il centro vitale è posto al di là della destrutturazione quotidiana; intoccabile, indistruttibile sorgente, la sua libertà è suprema, inalienabile e incondizionata. Il dono giunge dalla lontananza assoluta e può quindi andare, incontaminato, altrettanto lontano nel mondo dell’uomo. Per l’uomo quindi, si tratta di accettare il limite, che deriva dal suo non essere Dio.

L’eternità ritornante del giorno e dell’anno, prima, dopo e nonostante la sua breve esistenza, fanno del tempo la caratteristica ultima della condizione umana. Solo dall’accettazione del nostro necessario tramontare in quanto individui noi ricaviamo la forza per vivere intensamente e liberamente entro queste coordinate, già date in partenza. Le contraddizioni dell’uomo ed il suo anelito, anche all’arte, sono delle parallele che non convergono se non verso un punto infinito, irraggiungibile come il sole. Ecco quindi il significato del disco nella nostra struttura, un limite sovrumano come la morte infisso nella storia e nel la vita, una presenza così perfetta ed irraggiungibile da sembrare estranea, dinnanzi alla quale, come in un tempio, l’uomo ritrova il rifugio avvolgente a cui l’inconscio suo anelava e una parola sublime appena suggerita. La terra accetta l’imperfezione, e pur imitando il divino non ne raggiungerà mai la curvatura: gli angoli incisi nel marmo portano il ricordo lontano della tensione verso l’assoluto. L’ombra sola (che neppure i poeti sanno riportare alla vita se non per l’attimo) è teofania sui frammenti di materia: e solo il simbolo, la rarefazione di tutta una cultura, interpreta e media, perché mutando di forma e posizione altera il messaggio. In quella zona d’ombra. sotto il mantello protettivo del dono, l’uomo finalmente legge la sua storia, eternamente progrediente ma anche, in una diversa prospettiva eternamente ritornante.

Anche le arti, recuperato un appoggio più misterioso ma più solido, convergono verso un punto di fuoco infinito. In questo mondo dagli spazi più vasti l’utopia stessa viene transvalutata, composta con l’amor fati per una voglia di futuro, che ricorda l’aurora: solo dopo la rifondazione il tutto tondo è legittimato, il classico perde il suo velleitarismo e la quiete quindi non è più colpevole. li geroglifico di Tal-EI-Amarna è stato un primo prezioso sostegno alla nostra ricerca: in esso l’opera di pochi uomini bastava a guidare il Dio, verso altri uomini. Il nostro intervento non si limita infatti alla scelta del simbolo centrale; bensì viene a riflettersi in quella dei suoni, dei colori e di tutte le altre componenti che via aggiungeremo, per la quotidiana ripetizione di un unico articolato eppure umanissimo miracolo, dotato di una propria logica, un proprio sviluppo ed anche, ancora una volta, un’origine che la lucidità del nostro pensiero non potrà scalfire. In esso potrà infine rispecchiarsi quel bisogno di sacro che dai nostri giorni incredibilmente promana.

Tecnicamente, la nostra opera si compone di una superficie inclinata, nella quale abbiamo intagliato un simbolo, ed un’altra superficie orizzontale su cui questa forma luminosa (il sole che filtra) durante il giorno si muove, variando continuamente su di un piano semi-ottagonale formato da lastre di marmo di colori differenti (nero, rosso e bianco). All’estremità superiore della superficie inclinata, abbiamo posto delle cellule fotovoltaiche solari che al variare della luminosità del sale alterano il ritmo di un motivo «solare» prestabilito, memorizzato in un computer ma ogni volta ricreato su di un organo elettronico.

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